Rossana Bossaglia

«La radice delle sculture di Anna Santinello - cioè di queste figure tridimensionali che a poco a poco, e sempre più, hanno acquistato la sagoma e la fisionomia di persone, anche se sommarie e frammentate - è una radice pittorica. Una pittura condotta con l’utilizzo di vari materiali, da quelli di corrente tradizione artistica, compresi i pigmenti variegati, a quelli più poveri e occasionali: mescolati, sovrapposti, plasmati in una sorta di fervore che restituisca il senso del magma, del caos, dell’impasto misterioso da cui sono costituiti gli stati naturali. I critici che si sono avvicinati all’opera della Santinello ricavandone ogni volta un’impressione intensa, hanno tutti sottolineato questi caratteri informali (e sappiamo bene che il termine “informale” non nega in realtà la forma, ma ne sottolinea la fuga da ogni struttura precostituita); e questa tensione rappresentativa, che porta le immagini a effetti di costante metamorfosi. Nel manipolare tali realizzazioni, la Santinello ha sempre più utilizzato materie strutturate a tessuto o a granata, costituite in sostanza da intrecci di fili - si tratti di fili di lino o di fili di ferro, ma non per questo di apparenza leggera - ed è giunta anzi, da alcuni anni, a produrre opere che, per la chiara tridimensionalità e l’impatto plastico dell’immagine è corretto definire sculture. Il termine “plastico” parrebbe il meno adatto a definire queste opere, giacché la Santinello ha continuato a usare intrecci di fili metallici, la cui lavorazione niente ha a che vedere con il modellato. Tuttavia, i corpi espressivi che sono scaturiti dalle sue mani si presentano con un ingombro fisico potente, direi addirittura oltre, nell’effetto, le loro dimensioni reali; e quest’ingombro ai nostri occhi appare fornito di un suo pondus. Sono sculture, dunque; sempre più, nella produzione recente della Santinello, legate a un’immagine del corpo, per monco e spezzato che sia; e benché l’artista persegua la consuetudine di non fornire titoli alle sue opere, esse appaiono come evidente e deliberato simbolo della presenza della carne e della sua vitalità: anche là dove - e appunto dove - il corpo è sbocconcellato, è solo un torso, manca abitualmente della testa (alcune teste compaiono, nella sequenza immaginativa dell’artista, ma allora fanno opera a sé; tranne i casi recenti su cui ritorneremo). La mancanza di titoli è un elemento positivo nella produzione della Santinello: giacche è una produzione dalla coerenza non solo formale bensì immaginativa; e il perseguire l’idea di questi corpi frammentati ma non sgretolati, anzi potenti, corrisponde certo a una sua idea non solo dell’arte, ma anche della vita; ella consegna a noi questa sua interpretazione perché noi possiamo sentirla a nostra volta interpretandola secondo la nostra sensibilità. Una delle ultime opere, realizzata in filo di rame, nella parte inferiore ripete il tema consueto del corpo seduto, con la gamba vistosamente carnosa; ma nella parte superiore va in fumo: cioè i fili di rame si aprono, inerpicano, proiettano verso l’alto come il fuoco di un falò. È possibile interpretare quest’opera come simbolo della caducità del corpo; ma le fiamme in ascesa potrebbero anche esprimere un’idea di sublimazione. Per altro, se vogliamo soffermarci sui simboli di vita, alcune di queste figure, anche se l’immagine del corpo a un certo punto si interrompe, propongono con comunicativa violenza l’idea del ventre femminile gravido.
Nell’ultima produzione compare a un certo punto, oserei dire inaspettatamente, la figura intera; non integra, visto che è monca delle braccia; ma qui si riallaccia con ogni evidenza a esemplari dell’arte classica così come ci sono pervenuti. Sembra che la Santinello, superando in qualche modo la tensione precedente, voglia riproporre, con la sua tecnica originale e il suo personale linguaggio, modelli tradizionali e assoluti, simboli anch’essi di una idea dell’arte, e della scultura in ispecie, al di sopra del tempo. Sembra anche di vedere rivisitato Marino Marini, cioè il moderno classico di sé. È molto interessante questo approdo: la Santinello ha una tale sicurezza, nel proprio modo di esprimersi, della propria originalità, che può rasserenare la drammaticità della visione. E soprattutto sottolineare che questo è quanto ha sempre voluto dire: le tensioni sfibrano, sfaldano, sgranano la figura, ma la figura resta; o meglio: lo sgretolarsi delle immagini non va verso il caos; il filo è quasi, in quest’ottica, un filo conduttore. E di più: la sequenza si conclude cronologicamente (e inaspettatamente) con una seducentissima figura in marmo nero: ha l’anima in filo di acciaio ma ci si compone davanti agli occhi nella ritmica levigatezza della materia scultorea per eccellenza».

(Dalla presentazione in catalogo, Castello Sforzesco, Milano, 2000)

 

 

Marco Vallora

Ho incominciato a sentir parlare di Anna Santinello, anzi, in fondo, ad occuparmi di lei, spingendo un’automobile, che non è proprio un’occupazione da critico, o per lo meno da quelli che si credono critici.
Con la febbre addosso, un loden ingolfato nella cara spiumata nebbia milanese, e lo sky-line non proprio gratificante di San Vittore all’orizzonte. Quelle belle, classiche scenette da sketch meneghino.
Uno esce dal letto (improvvido) dell’influenza, giù direttamente nel modesto brodo color topo dello smog cittadino, già poco convinto d’aver fatto la scelta giusta - affaticamento umidori e lo spettro del tramway sempre più lontano - e vede con la coda dell’occhio, tipicamente cittadina, un’ombra accanto, che spinge tutto solo, eroico, un’automobile guasta. Nessuno che si ferma, naturalmente. Come in un Sironi calcificato. Che fai? Pensi gelosamente a te stesso: se mi offro è finita: provato nel corpo quale sono, come minimo, ne muoio sul selciato.
Meglio intabarrarsi nella sciarpa dell’indifferenza e tirar via.
Chiudersi vigliacchi nell’ignominia del non-vedere. Che non è proprio una qualità da critico. Poi - sarà una deformazione professionale - ti sovviene l’immaginetta da sussidiario del Buon Samaritano, ti passa ironica davanti al volto e tu sei già li che spingi, febbre o non febbre.
Solo. Convenevoli, ringraziamenti, adesso l’accompagno. Tu sali, due parole, e scopri che sei caduto in un’altra trappola. Mia madre è pittrice.
Che sono quei colpi da far stramazzare un presunto critico, che si sente sempre preso in gabbia, tormentato dalla richieste, in perenne imbarazzo di recensione: «lei verrebbe nel mio studio?» ma subito la nebbia si dissipa: sento pronunciare le parole-talismano Testori, Compagnia del Disegno, Alain Toubas. Sono come a casa, posso rilassarmi. Anzi, mi vien voglia di conoscere questa Anna Santinello di cui già avevo avuto qualche eco. Con Claudio sono diventato amico, anzi, spesso glielo ripeto: ti è andata davvero male quella sera che t’abbia aiutato. Perché è diventato il mio consulente informatico (di me, bestia da computer) e l’ha pagata carissima, quella mia cortesia. Altro che trascinarsi da solo la carretta! Con le opere di Anna ho subito fraternizzato: la tagliola ha presto liberato le mie paure di recensore costretto alla catena. Mi ha subito colpito la tempra ansiosa e smaniosa di questa donna minuta che, lavorando accanita come un roditore, riesce a triccottare nel ferro e nella caparbietà del suo di ferro, ferro d’animo, queste immense membra da abbattuto Colosso di Rodi, da 59 MongArte - Racconti plurimi del Riciclaggio reperto archeologico di un mondo che ha precipitosamente sotterrato i proprio valori. Cancellati, nella sabbia friabile del consumo immediato, come i cani, quando zampettano frenetici, dopo aver depositato i loro bisogni. Per nascondere la nostra verogna. Lo diceva già Cocteau: «Da bambino avrei voluto fare l’archeologo e poichè non mi è riuscito, oggi mi costruisco da solo quei reperti che avrei voluto scoprire sotto la terra». Spirali che si autogerminano, pittura che esce dal proprio volto, circolazione sanguigna in fil di rame e acciaio battuto, come nelle vecchie incisioni anatomiche di Vesalio. Anna Santinello è passata dalle sue prime curiose prove pop (di oggetti domestici gonfiati come fantasmi allarmanti) alle sue temperamentali colate di vitalità arteriosa, ai suoi voluminosi, spiccati brandelli di corpi annidati di fili, con una levità forte e solida, da invincibile casalinga che alterna la sua sapienza manuale e che non vuole avere maestri o precetti: ma è appunto e sempre la sua forza indomita, indomabile, a colpirci, a invischiarci nel filo spinato della sua visione fatta di spurghi e di materie, di cieli trafitti e di corpi sofferenti, di san Sebastiani del quotidiano e di atteoni smembrati dall’abitudine. Una visione sanguigna, dilaniata ed insieme eroica, da Prometeo moderno, proiettato verso un cielo negato, senza più grandi fuochi. Urla e ribellioni ben trattenute nell’educazione domestica delle sue pareti protette di silenzi. E lo dice lei stessa: «Se io non lavorassi anche in treno, non potrei mai partire».
Così, come le crudeli triccotteuses della Rivoluzione Francese, affronta i suoi incolpevoli pendolini munita di pinze e gomitoli d’acciaio, come una monaca timorata, con i suoi diligenti uncinetti: ma intanto, sornionamente, i familiari frankenstein del suo domestico zoo lievitano silenziosamente sino a scardinare ogni cornice rassicurante di orizzonte predeterminato. E vengono in mente altre eroiche protagoniste della scultura moderna (prima non ci si erano nemmeno provate). Camille Claudel, la Richier, Louise Bourgeois, la Nevelson: mingherline, umiliate protagoniste di un sogno gigantesco, di una cucina-fucina gloriosa di fuga nella materia. Ma forse non è questione nemmeno di sesso. In fondo la meccanica è sempre quella di Picasso, che trova per strada un sellino da bicicletta dimenticato e ne fa una testa di toro. Ben sapendo che il toro potrebbe presto animarsi e saltar via sulla bicicletta, come un personaggio di René Clair. Anna Santinello non ha chiarezze ironiche, levità gentili da proporci, biciclette che la aiutino a scavalcare la drammaturgia della vita: le sue mani precipitate e monche (come quella formicolante di mosche nel Chien Andalou di Buñuel) vedono scuro e tentano brancolando la solitudine per trovare un contatto.
Un dialogo zitto. Un corpo finalmente fidato. E spesso rimangono come ammutolite nella sospensione del metallo troncato.
M.V. Vedendo le tue opere, così lavorate si ha come l’impressione che la manualità (la voglia di fare, anche di disfare, di rannuvolare le materie, spesso di litigare e allo stesso tempo di amoreggiare con i tuoi gomitoli di espressività) sia un’esigenza più forte ancora che non di ottenere una risultanza estetica... e non a caso ci si imbatte spesso, ed è il fascino di queste opere, nella ruvida sostanza tranciata del non-finito...
A.S. ...forse c’è anche una ragione biografica. Io ho sempre manifestato una grande manualità innata, istintiva. Per esempio, si rompeva una statuetta, io ero già lì che la riparavo, con la mollica di pane, ero una bambina, non conoscevo le tecniche, nessuno me lo aveva insegnate, ma io sentivo che si faceva così...
M.V. Un rapporto molto istintivo con la materia, dunque, senza bisogno di filtri culturali od estetici...
A.S. Certo, allora io non potevo nemmeno permettermelo, un vero rapporto con la cultura. Venivo da una famiglia molto numerosa, figurarsi.
Una figlia, femmina per di più, e che volesse occuparsi di arte, non se ne parlava nemmeno. No. L’importante era trovare un lavoro, magari studiare di sera per diventare ragioniera e mettersi a posto. Ma questo non vuol dire che uno, da sé, nei rari momenti di libertà non si ingegnasse... E io sì, devo ammeterlo senza immodestia, che una piccola creatività la dimostravo già allora.. il che non significa certo arte.
Ma può essere comunque un elemento rivelatore. Era qualcosa di nativo, come per esempio disegnarsi una camicetta senza mai esser stata a lezione di taglio...
M.V. Come se la materia stessa ti conducesse, ti guidasse la mano. Ti facesse da maestra di taglio, a tutti i livelli...
A.S. ...Diciamo che mi davo da fare, senza aver nessuna pratica di tecniche o di insegnamenti, mentre ora so benissimo che per fare dell’arte ci vogliono comunque delle basi. Ma la creatività, anche a livello basso, è comunque qualcosa che ti nasce dentro, che ti fruga, ti stimola, istintivamente. E poi quasi esplode. Per questo io ho paura di ogni tipo di controllo. È come fare la psicoanalisi: e poi, e se quello che tu hai dentro ti viene come ripulito, che sarà della tua creatività? Che poi può esprimersi ad ogni livello. Per esempio, appena sposati, vivevamo in una parte di casa che i genitori di mio marito ci avevano lasciato, io lavoravo in ufficio, quelle gigantesche macchine da scrivere speciali. E c’era un’infinità di quelle bobine nere dei nastri, che si buttavano via. Io le prendevo e ho finito per unirle insieme e per creare in cucina una parete trasparente che la dividesse dal resto della stanza. Ed era una cosa forse abbastanza ardita per l’epoca, non lo faceva nessuno. Insomma, io mi adattavo...
M.V. E adattavi appunto la materia... riciclavi i rifiuti inutili, disperati del tuo lavoro obbligato. Come se unire queste cose disperse, salvare gli scarti deperibili, redimere questi rifiuti destinati ad esser gettati via, creare delle nuove famiglie d’oggetti, ti facesse sentire meglio. Un metodo quasi curativo, esorcistico. Un affetto per le cose dimenticate, se non proprio una vera terapia della speranza...
A.S. L’ho sempre sentito, sì, è vero. Così come prendevo un cestino di vimini per fiori, lo dipingevo, lo trasformavo e diventava insieme pittura e scultura...
M.V. Che è poi un tuo percorso ben riconoscibile, rintracciabile nel cammino delle tue opere. Far lievitare la pittura sino a che diventi scul tura, che germini, incinta di reperti e di memorie solide, magma cannibalico che annette e deglutisce. Curiosamente questo termine di cannibale l’ho ritrovato anche rileggendo Testori. Una materia che fagocita la vita, che la metabolizza, senza cancellare le tracce di questo immenso gorgo biologico. Insomma, far fiorire la stessa pittura, solidificarla sino a che si ribelli alle formule codificate, che esca dai suoi ranghi. Per questo i tuoi sanguinanti dipinti non sopportano le cornici, e le immense sculture rompono ogni finitudine anatomica? A.S. Sì, perché ogni cornice è una gabbia, che chiude, che porta via lo spazio e io invece voglio che le mie figure navighino nell’aria, voglio che abbiano del respiro intorno. E dico figure, perché, sia pure dopo aver corteggiato l’arte informale, in fondo mi rendo conto che una figura si individua sempre. Perché a me, in fondo, interessa la vita, interessano le persone. Esistere senza essere, ma che senso ha? Non siamo qui mica solo per mangiare e poi morire. Ed essere soltanto degli spettatori della vita non basta. Per questo ho incominciato a scavare, a cercare.
M.V. E dunque, quando hai incominciato con il disegno? A.S. Mah, io penso fin da piccola. Però mi ricordo che quando avevo appena avuto i bambini, anzi, forse Claudio non avrà avuto che un anno, stavamo in cucina e io ho incominciato a fargli i primi ritratti.
Arriva un amico di famiglia, diciamo così un collezionista, non quelli raffinati di oggi, andava per fiere, insomma. Ebbene, lui rimase sorpreso: «ma sono somigliantissimi!». Sì, perché negarlo: è vero, la somiglianza c’è. E io li ho tenuti, e anche adesso che li riguardo, dopo avere poi cominciato con lo studio, a leggere, ad andare all’Accademia, mi stupisco persino io, qualcosa c’era già. Per questo ogni tanto penso: sì, è necessario andare a scuola, imparare, ma se non c’è una disposizione naturale, tutto il resto non serve. Anzi, può bloccare, imprigionare. Bisogna saper uscire dalla gabbia: anche se conoscere e studiare ti serve soprattutto per non rifare quello che è già stato fatto da altri...
M.V. Ma per te quando sopraggiunge il vero rapporto con la pittura? A.S. Tardi, un po’ di libertà l’ho trovata solo dopo sposata, prima non avevo nè le risorse economiche nè quelle culturali, lavoravo, ritagliavo un po’ il mio tempo, ma senza grandi possibilità. Per di più stavo a Padova, in un clima non proprio favorevole, e qualche eredità contadina, provinciale: una donna certe cose non può permettersele. Per questo, ora, ho tanta voglia di fare, di recuperare il tempo perduto. Le idee sono tante, ma la possibilità di affrontarle è relativa. La verità è che ho potuto incominciare soltanto quando ho trovato un marito comprensivo...
del resto ci siamo conosciuti in un centro culturale... E lui mi ha detto: «va bene, se ti interessa, puoi smettere di lavorare e ti rimetti a studiare». Ovvio, siccome da ragazza la famiglia mi è un po’ man cata, non mi ha certo aiutata con gli affetti, e io sentivo molto forte questo bisogno di crearmi una mia nuova famiglia, non le ho tolto nulla, ma non è stato facile destreggiarmi tra i vari doveri.
M.V. E l’incontro con l’Accademia come si è rivelato? A.S. In realtà, a Bologna, ho cominciato con la scuola di nudo. Poi ho trovato un professore, mi ricordo ancora, si chiamava Mazza, e lui mi fece capire che me la cavavo così bene che potevo proprio affrontare l’Accademia. Anzi, mi consigliò come fare per entrarci e che cosa studiare. Un po’ traumatico fu: non ero più giovanissima, ero abituata ad esami tecnici, mi misi a studiare storia dell’arte, cercai di recuperare, insomma, avevo delle grandi paure, un senso di fragilità di base...
M.V. ...quella provvidenziale sensazione di sentire di non essere una vera-finta intellettuale saccente, che può anche diventare una forza paradossale...
A.S. Forse... Tieni conto che io allora facevo delle cose figurative, piacevano abbastanza, mi avevano proposto anche delle mostre. Dovetti rimettere in discussione tutto. Con la storia dell’arte ero arrivata sino al Romanticismo, adesso bisognava affrontare la contemporaneità. Il professore si chiamava Maurizio Bottarelli...
M.V. Certo, un pittore famoso, sensibile.
A.S. Sì e io gli devo molto. Forse ancor più per quello che mi fece scoprire oltre la pittura, aprendomi la mente. Parlava spesso di musica classica, invitava compositori, direttori d’orchestra, è lì che ho scoperto la musica dodecafonica, oltre che l’action painting...
M.V. Ma tu pensi davvero che l’arte si possa insegnare? A.S. No, è proprio questo il punto e per me fu molto traumatico. È come per un bambino che ha appena incominciato a scrivere e deve buttare tutto a mare. Per questo dico che uno non si può infossare, costringere dentro degli schemi, che deve rimanere libero. Per quanto onesto e sensibile un artista ti insegnerà sempre la pittura come la concepisce lui, in modo troppo soggettivo. Quando i maestri ti danno qualche tema, ebbene, è ovvio, loro ti propongono quello che sanno fare loro e in conseguenza di quello, ti giudicano. È naturale, ma non giusto. Tu devi essere un loro sosia e se non lo sei, sei subito cassato.
E io per quanto fragile ero anche molto resistente. Per me che venivo dal pennello 00, e che dipingevo tutto così ben rifinito, certo, mi avvicinavo alla contemporaneità con molta coscienza, ma mettersi lì per terra a gettare del colore... insomma, fu difficile e anche esaltante. Per fortuna l’Accademia era sovraffollata, non c’erano spazi, per cui quello che ho pouto imparare davvero è stato l’apertura mentale, la cultura.
E direi che la musica classica per me ha rappresentato davvero una certa crescita dell’immaginario. Mentre l’arte, intendo quella figurativa, non deve mai passare attraverso dei modelli, dei precetti. La tecnica devi inventartela tu, sperimentando...
M.V. E invece, quali sono state le influenze più ampie, diciamo così i grandi amori? A.S. Tanti, ovviamente, Giacometti, Bacon, e poi anche molto l’Informale, Fautrier, eccetera. Oggi è persino difficile ricordare. Molto anche Brancusi, con quella sua essenzialità senza tempo, senza luogo. Quel distacco assoluto. Ma a me è servito anche molto viaggiare, vedere il mondo, oltre che scoprire i pittori. Per esempio un lungo viaggio in Giappone, ma non da turista, cercando di entrare nella loro mentalità.
M.V. E forse dalla cultura zen che ti viene questo senso così poco occidentale del rapporto tra pieni e vuoti? A.S. Probabilmente è qualcosa di introiettato, uno non lo fa consapevolmente, ma sono degli elementi che tu ti ritrovi inconsciamente nella tua memoria e li usi: come vedere quella religione assoluta del lavoro, non per un senso del guadagno, ma del pettinare persino il vuoto, come capita con i loro giardini, continuamente rastrellati con un senso del sacro.
M.V. E qualche altro incontro decisivo, fatale? A.S. Beh, innanzittutto direi l’incontro con Mattia Moreni, anche se all’inizio non è stato così semplice. Per motivi di studio, per il mio diploma, mi avevano chiesto di intervistare un pittore neo-futurista, che non mi interessava per niente e fui io che proposi di incontrare Moreni, che invece mi incuriosiva di più. Mi fecero delle previsioni fosche: «ma no, è impossibile, è una persona difficilissima, un caratteraccio». Certo, non era una persona facile, un po’ scorbutico, all’inizio non sembrava disponibile... ma poi ci siamo conosciuti, diceva che mi trovava interessante, e anzi, mi concesse volentieri quell’intervista. Non posso dimenticarlo: mi venne persino a prendere al treno a Brisighella, io mi sentivo un topolino davanti a lui. Non posso cancellare quel ricordo, lui che agitava il suo moncherino, probabilmente per scioccarmi, lo ostentava davanti ai miei occhi come era nel suo carattere, ma devo anche ammettere che non era quell’orco che mi avevano fatto credere.
Rispondeva all’idea che mi ero fatta di lui vedendo le sue opere: questo devo dirlo, lui era sincero, credeva davvero alla regressione della specie, cioè in quelle cose che scriveva sopra le sue tele.
Insomma, un incontro importante e ancora oggi conservo con amore la cassetta della registrazione.
M.V. E Testori, che fu uno dei primi a scrivere con entusiasmo di te? A.S. Io spero che mio marito non sia geloso, ma per me l’incontro con Testori è stato ancora più emozionante del matrimonio. Io non ho mai avuto troppa fortuna con le gallerie e il mondo dell’arte, anzi, direi che con gli anni ne sono rimasta piuttosto delusa, perché ho l’impressione che tutti pensino a sé, soltanto ai soldi e al mercato, alla carriera e nessuno davvero s’interessa a quello che tu fai. C’è soltanto il rito del pre senzialismo, ed un individualismo dominante: è stato per me un trauma scoprirlo. Dunque, io ero alla ricerca di una galleria che potesse interessarsi a me, e la Compagnia del Disegno mi sembrava una delle più confacenti. Feci fare delle belle fotografie, curate e provai ad offrirle, ma capii subito che era molto difficile, me lo dissero, anzi, onestamente: loro avevano già i loro artisti, era difficile entrare dal nulla in un mondo così complesso. Però mi fecero il nome di Testori. Io lo conoscevo come artista, come scrittore, avevo visto l’Arialda, mi sembrava qualcuno di lontanissimo da me, d’irraggiungibile. Era prossima l’estate, tornai dopo qualche mese, mi avevano dimenticato, ovviamente.
Ma a me dispiaceva per le foto, speravo di riavere almeno quel servizio, che mi era costato tanto. Non le trovavano, poi si capì che le aveva volute Testori. Quando venne a vedere le mie opere, no, non avevo ancora affrontato la scultura, arrivò puntuale a casa mia, col taxi, era già molto malato, mi disse delle parole così belle e tenere che io mi emozionai, appunto, come nemmeno al mio matrimonio. E disse ai miei figli, che sono adorabili, e che mi seguono da sempre: «mi raccomando, lasciatela lavorare!» Per me è stato una forza incredibile quella che mi ha comunicato Testori, insomma non mi sono più sentita sola nel mio cammino di artista e anche adesso, quando ho dei momenti difficili, mi dico, «ma no, tu sei piaciuta a Testori, devi resistere ». Anche perché per me lavorare con le mani il ferro, magari sino a farmi male, a dover smettere perché non ce la faccio più, è diventato un’esigenza irrinunciabile. Non potrei smettere, è come una droga.
Però, per me è anche un modo per non tradirlo, Testori. Sì, mi dispiace che non abbia conosciuto le mie sculture, immagino che gli sarebbero piaciute.
M.V. Per quel senso di pietas che dimostrano nei confronti delle cose, delle materie deperibili gettate dal mondo? A.S. Per esempio, io ho fatto vari ritratti di Testori, ma in uno mi è venuto istintivo di applicarvi sopra un vecchio filo spinato che mi aveva regalato un amico, in memoria della guerra ‘15-18, un vecchio reticolato dell’Adamello dove il dolore si era addensato sin nella ruggine.
Lo avevo tenuto con affetto geloso, pensando a quali strazi mai aveva dovuto assistire. Ebbene, mi venne istintivo ricordarmene e inserirlo in quel ritratto: perché il volto di Testori era il volto tormentato di chi aveva sofferto, che poteva capire quella mia sensibilità. Sarà per questa mia infanzia difficile, ma io nel mondo vedo soprattutto la sofferenza, ecerco semmai di capire, di spiegarmi perché uno è portato a compiere anche certi gesti terribili. Insomma, ho l’impressione che buoni o cattivi, l’uomo sia destinato a soffrire, comunque. Ebbene, in quel caso, il gesto di ritrovare nella memoria quel reticolato e finalmente di utilizzarlo mi è venuto dal cuore. Perché io concepisco così l’arte, come qualcosa che si sprigiona, di irragionevole, di immediato. È l’opera che ti conduce, non sei tu che la governi. Per questo non amo fare degli schizzi, preordinare, prevedere che cosa mai l’opera potrà diventare. Io ho davvero la sensazione che i disegni preparatori possano esaurire la carica espressiva, istintiva del lavoro. Bisogna lasciarsi condurre dalla materia. Se tu elabori, graffi, togli, è una vera esplosione di immaginazione, è qualcosa che ti coinvolge molto. Nella pittura tu ti tuffi dentro realmente, entri in un’altra dimensione, è il tuo sogno che si realizza. È come fare l’amore con il colore: davvero c’è qualcosa di erotico. Mentre la cultura, il ragionamento spesso può bloccarti.
M.V. ...Come ha detto una volta Louise Bourgeois: «La mia scultura è il mio corpo...».
A.S. Non lo sapevo ma sono d’accordissimo. È Alain Toubas che anni fa mi ha parlato di questa strana signora della scultura, io avevo visto soltanto qualcosa, ma poi alla Biennale negli anni ho scoperto quante affinità ci fossero. È un po’ mi è dispiaciuto, quando ho scoperto che anche lei usava della tela grezza per ricoprire le sue forme. È vero, lei usa soprattutto la juta, tela di sacco, io no, ma certe vicinanze sono inquietanti. Uno all’inizio ha molte preoccupazioni, timori e perplessità. Pensa, che cosa mai potranno pensare gli altri che vedono le tue opere, cerchi di essere gradevole, di andare incontro al gusto corrente. Ma è un errore, tu devi soltanto fare quello che ti senti. Per esempio, all’inizio, a me sembrava giusto, quasi necessario ricoprire tutti i miei scheletri di ferro con delle materie impastate, cartapesta o tele impregnate di colla. Poi ho trovato il coraggio, ho levato tutto e non sono rimasti altro che le impalcature, le armature di ferro. Nude.
Lo so, per qualcuno questo è troppo duro, ardito. Ma che farci? Io sono una che sente soprattutto il dolore, anche la decomposizione della materia. È un po’ quello che succede al nostro corpo, lo vedi deperire, perdere colpi, umiliarsi...
M.V. Eppure, come ricorda il tuo adorato Merleau-Ponty, «il corpo è l’unico mezzo che io ho per andare al cuore delle cose», magari citando Valery: «Il pittore si dà con il suo corpo...» A.S. Sì, e per questo tu acquisti questa sensibilità per le cose gettate, che si disfano. Corpo può anche essere quello di un piccolo chiodo umiliato che tu ritrovi abbandonato per terra. Lo recuperi, gli dai nuova vita e ti fa piacere sapere che qualcuno potrà ammirarlo come un oggetto d’arte, guardarlo con simpatia. Gli dai un’anima, perché il corpo, in questo senso, è solo una scatola, come per tutti noi.
M.V. In questo modo tu parli, inusualmente, di “arte povera”, anzi di “povere cose”. Cose impastate d’una materia che è già attraversata dalla vita, addensata di umanità, colorata dal colore-dolore di molte esistenze precedenti.
A.S. In effetti, la prima volta che ho pensato di diventare scultrice, ero andata in una fornace a cuocere il mio pezzo di terra, una strana forma di utero che riprendeva un mio quadro. Ma quando sei lì, tu devi aspettare, dipendere dagli altri, lasciarti aiutare: non fa per me, troppo poco immediato. È l’istintualità che evapora. Mi ricordo che in quell’occasione ho visto per terra un pezzo di fil di ferro, mi sono chinata, l’ho raccolto e ho capito subito che la mia scultura poteva, anzi, doveva partire di lì.
M.V. Come se il povero pezzo di ferro avvilito ed orfano ti avesse chiamato, avesse chiesto la tua collaborazione per rivivere...
A.S. Io non potrei mai lavorare con un elemento freddo, utile, per carità, ma moderno come la plastica, malato di indifferenza. Io ho bisogno del rame usato, del ferro vissuto, per questo lo vado a cercare nei depositi di ferrivecchi, non che costi poi molto meno di quello nuovo e inoltre devo passare ore e ore per dipanarlo. Ma è un’altra cosa, che certo ha a che fare con la tenerezza, con la sensibilità, c’è una carica di vissuto che non trovo nel nuovo. È come quando uno parla alle piante, innaffiandole. Io ho avuto subito la fortuna di trovare una matassa di filo dell’alta tensione in rame dal colore bellissimo, doveva esser stato attraversato da una scossa terribile, aveva preso un colore magnifico, brunito e la mia scultura è incominciata proprio di lì. Io ho una grande passione per sperimentare le materie. Anche con la colla, io non riesco ad utilizzare quella impersonale, industriale, il vinavil. Io preferisco quella di coniglio, che è ancora viva, in fondo, fa parte del ciclo vitale: qualcosa di vero. Se tu ti penti e vuoi cambiare qualcosa, lo puoi fare, basta che la riscaldi un po’. La vita ricomincia.
M.V. È curioso, tu hai incominciato con dei grandi quadri di dettagli ingigantiti, quasi una pop art casalinga, e forse non avevi mai sentito parlare di Gnoli o di Wesselmann...
A.S. No, non credo proprio. È che io ho il senso delle sproporzioni, dei dettagli staccati dal contesto. Anche le mie forme umane, in scultura, non riguardano mai la completezza, sono dei frammenti d’anatomia.
E così è anche per il mio carattere. Quello che per qualsiasi persona normale è un piccolo incidente, io lo ingigantisco sino a farne una tragedia, e lo stesso accade con il contrario, posso entusiasmarmi per un nonnulla. Io vivo nell’eccesso. E così, quando io disegnavo quella lampada gigantesca, oppure quella cerniera a lampo in primissimo piano è perché io ci vedevo dentro altro, il profilo di una monaca, oppure l’aprirsi di un paesaggio... È l’ambiguità dell’immagine che mi attrae: ma non qualcosa di controllato, di preordinato. Per esempio, da un po’ di tempo mi è venuta la passione di occuparmi del marmo, questa materia così liscia e chiusa che ha attratto tanti altri artisti. Io ero convinta, per esempio, con questa forma, di aver alluso ad una donna incinta. L’altro giorno, girandole attorno per caso, ho sorpreso il profilo di un bambino: ma non era qualcosa di calcolato, di previsto da me. Ed è questo che mi attrae dell’arte. Che possa soprendere anche chi l’ha prodotta, rivelargli qualcosa che non conosceva.
Qualcosa che appunto ti permette di crescere.

(Dalla presentazione in catalogo, Castello Sforzesco, Milano, 2000)