METAMORFOSI DELLA MATERIA Recuperare la memoria Brutto è bellezza
di Gabriella Baldissera

«L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità» Adorno «[…] e, poiché l’animo umano rifugge istintivamente da tutto ciò che è doloroso essi avvertivano nel loro godimento del bello l’interferenza perturbatrice del pensiero della caducità» Sigmund Freud «il bello è brutto e il brutto è bello» William Shakespeare

 

Afa, calore, immobilità. La città semideserta con i suoi colori grigi di calura, di polvere, di immondizie sparse sulle aiuole brulle, è oppressa da una sconcia malinconia.
La figura minuta, vibrante, dinamica di Anna Santinello si pone in netto contrasto con questo pomeriggio milanese. La parlata rapida, incisiva, velata di dolcezza e di tensioni, da pause eloquenti, racconta di emozioni dissonanti.
Insieme varchiamo la soglia del suo studio, laboratorio, officina, fresco riparo e opificio in cui i sensi percepiscono vigore, forza prorompente.
Bottega d’arte, nella quale gli strumenti di lavoro del fabbro, relegati in un angolo, raccontano la fatica e la determinazione, l’instancabilità dell’artista-artifex: tenaglie, martelli, morse riconquistate alla ispirazione creativa. E la stessa storia narrano le sue mani, robuste e volitive, simbolo di una energia vitale che ha trovato lì la propria concentrazione e il proprio strumento. Le sculture anche di dimensioni gigantesche, le tavole da cui trasudano dolore, pena, ostinazione, vigore e dolcezza, sono urto che risveglia i sensi sopiti.
Si resta storditi e disorientati di fronte alla forza espressiva delle sculture. Grandi mani, ventri, gambe e grembi spalancati, forme mozzate hanno preso consistenza dall’intreccio di centinaia di metri di filo metallico, piegato, tagliato, domato dalle mani robuste di questa donna dall’aspetto fragile e delicato. Mani guidate da interna incontenibile energia, caparbietà, dall’urlo di un’anima che non vuole arrendersi al dolore della perdita, al dissolvimento, alla morte, alla rinuncia.
Filo d’acciaio e di rame, fili recuperati da vecchie officine, trucioli metallici restituiti alla vita, materiali elettrici o stracci destinati alle discariche, si trasformano in figure che pur nella fissità e nella solidità dell’intreccio dei materiali, possiedono una flessibilità che evoca il palpitare della vita. E oggetti recuperati, fino a quel momento senza futuro, sono trasformati dalla creatività. E la materia vile, per “via di mettere”, si fa espressione artistica strappata al destino di caducità o di morte e riportata nella sfera della psiche. Essa, in altri termini, rivela un proprio possibile contenuto spirituale. Si è verificata la metamorfosi della materia. I fili diventano labirinti, arterie in cui scorre linfa vitale e prendono voce per ricordare fatica di vivere, grovigli, tenacia, ostinazione. Si fanno metafora dell’intrico di vie della nostra mente, reticolo robusto attraverso cui può filtrare la luce o l’ombra delle passioni. Un atteggiamento radicale ed estensivo contro il sentimento di morte e di provvisorietà universale che caratterizza ogni aspetto dell’esistenza e dell’umanità provocando un senso di pesante angoscia e spaesamento. Un desiderio di salvare quello che è stato usato, rifiutato e gettato.
Nell’epoca della tecnica ciò è tanto più significativo, in quanto la produzione rapidissima, i mutamenti e capovolgimenti improvvisi, hanno provocato un aumento vertiginoso della celerità del processo di scambio tra merci e rifiuti.
Ne è emblema Leonia, la città scaturita dalla invenzione profetica di Calvino, che inizia ogni giornata tra oggetti nuovi e incontaminati, per arrivare al tramonto sommersa da un cumulo di spazzatura.
«[…] ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero come dicono il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità», si legge ne Le città invisibili.
Lo scartare, il gettare, il cancellare sono diventati gesti abituali quasi nevrotici che portano in sé il significato della commercializzazione dei valori.
Il consumismo accelera la morte degli oggetti e insieme con gli oggetti quella delle intenzioni, delle speranze dei sogni e dei progetti che a questi sono legati, e rischia di buttare al macero anche i ricordi.
Tra i rifiuti stanno cose consunte che hanno terminato il proprio ciclo, stanno anche brandelli della nostra vita, sta ciò che rifiutiamo perché doloroso conservare, sta ciò che non merita di essere distrutto o di marcire, ma che potrebbe avere nuova e diversa esistenza. E nella eliminazione frenetica regna il caos.
La spazzatura diventa metafora di ciò che non abbiamo voluto vedere, vivere o provare, di ciò che senza elaborare né riflettere, abbiamo espulso. Le discariche in cui stanno le scorie del nostro continuo usare, distruggere ed eliminare, possono essere raffigurazioni simboliche di quelle parti del nostro inconscio in cui eliminiamo – o vorremmo farlo – ciò che riteniamo “esaurito” nelle sue funzioni e nella sua entità.
Eppure da questi depositi i nostri stessi rifiuti riemergono nel sogno, nelle nevrosi, negli incubi o nella nostalgia.
L’artista che conosce il senso delle metafore e sa immergersi nella confusione del rimosso e della memoria inconscia, calandosi nelle “discariche” reali e simboliche, rappresenta il proprio inconscio e gli dà voce.
E l’opera d’arte, prodotto sempre di relazione tra il singolo e il suo ambiente, attraverso l’uso di materiali di recupero, salva parte dell’esistere stesso da un processo distruttivo e autodistruttivo.
Il “riscatto” da parte dell’artista, del rifiutato e del negletto, va inserito in questa dimensione simbolica che congiunge inizio e fine, nascita e morte, fioritura di vita e putrefazione. Un’operazione che potrebbe essere giudicata moda o gusto del dissenso, ha invece il significato profondo di desiderio di liberazione, di ribellione verso la morte e di una consapevolezza della inscindibilità del bello e del brutto, del buono e del cattivo, di ciò che è accolto e di ciò che è stato 19 MongArte - Racconti plurimi del Riciclaggio “gettato via”. Il rapporto tra soggetto e oggetto, nel caso di chi compone opere d’arte attraverso materiali destinati alla morte e recuperati alla vita, sta nel restituire una possibile esistenza e funzione a ciò la cui estinzione è stata decretata. Un gesto contro il nichilismo, una testimonianza della volontà di strappare le cose alla sorte dell’effimero, di destinarle all’immortalità riportandole nel ciclo della memoria, senza la quale non c’è vita. Nell’immaginario collettivo il concetto di rifiuto coincide spesso con quello di brutto: ciò che è stato rifiutato o che si dovrebbe rifiutare è “bruttezza”.
L’artista che raccoglie e recupera il materiale degradato, umile, brutto, diviene dunque utero accogliente che da quel seme fecondato e nutrito, partorisce nuove realtà di immortalità e di bellezza.
Recupero contro la rimozione, creatività contro l’estinzione.
Arte e rifiuti, bello e brutto, costruiscono insieme una sorta di metamorfosi di forme che equivale a metamorfosi di sostanza. Res extensa e res cogitans coincidono, corpo e pensiero, materia e forma affermano la propria inscindibilità. Bellezza e bruttezza coesistono come elementi non speculari, fondanti ogni realtà creativa: emozioni profonde, che sono bellezza, derivano da figure deformate, immagini disgustose, espressioni scomposte, di orrore, di disperazione, che sono bruttezza.
Nel campo delle arti figurative, la bellezza appartiene, altrettanto a un dipinto di Bacon quanto alla Venere di Milo o a un dipinto di Bösch dove l’inferno, raffigurato nella sua “bruttezza” e simbolo di negatività, diviene, nella trasfigurazione artistica del dipinto, figura di “bellezza”. Di fronte a questa realtà, vale la pena di accennare come l’idea stessa di “bello” sia mutata nel tempo con diverse interpretazioni e sfumature determinanti nella definizione del “brutto” e nella dialettica dei due concetti.
Gli antichi greci identificavano il bello estetico con il kalòn kài agathòn, il bello morale. Il bello nell’antichità è anche il kosmos dei pitagorici, è armonia nel senso matematico, indica ciò che è ordinato e composto ed è il pulchrum della cultura latina che attribuisce al termine una connotazione di decoro e di onorabilità, condizionata a sua volta per secoli dal mutante rapporto tra natura e cultura.
Il “bello” e il “brutto”, appartengono entrambi all’estetica che, come l’etimo stesso suggerisce (aithanomai) attiene ai sensi. Bellezza e bruttezza sono dunque percezioni della nostra intelligenza sensibile che si trasmettono in reazioni e suggestioni interiori, ma anche fisiche particolari.
L’arte, cogliendo la totalità e l’universalità dell’esperienza e dell’essere, come ha affermato lo stesso Platone, ha operato spesso “recuperi” di “rifiuti” che sono stati considerati come appartenenti alle categorie inferiori dell’indegno o dell’indecoroso.
Nel Medioevo scarti di linguaggio plebeo, sono stati ricuperati in composizioni relegate, per motivi di purismo linguistico o di decenza, nell’ambito delle forme “minori”, pur trattandosi di testimonianze essenziali per la comprensione dell’epoca.
Le rappresentazioni profane, i canti per il Carnevale, i Carmina Burana, la stessa poesia comico-realista hanno tenuto in vita forme di linguaggio, usi e tradizioni che la cultura ufficiale avrebbe voluto rifiutare e che rappresentano espressione importante e genuina di una parte considerevole della società. Scarti dell’umanità e del soprannaturale, sono rappresentati da Dante stesso che non esita a inserire nel suo poema immagini ributtanti di peccatori, di diavoli, di mostri. E la “bruttezza” di questi esseri si fa “bellezza” nell’armonia del verso e della composizione.
La letteratura ha rappresentato in ogni epoca, anche nel Rinascimento, il brutto e la degradazione come elemento a se stante o in contrapposizione con il bello, riconoscendo indispensabile la presenza dei due elementi a ritrarre la realtà umana.
L’ingresso del degradato e del brutto nell’arte avviene in forma definitiva dal 1800, attraverso il lavoro di Rosenkranz (Estetica del brutto, 1853), e a causa del mutato ruolo che nell’arte è stato attribuito all’emozione, al sentimento, al dionisiaco.
Filosofia e psicoanalisi hanno introdotto i concetti dell’incertezza, del turbamento, dell’inquietudine come fondanti l’essere umano e quindi le sue manifestazioni creative. Le arti li manifestano attraverso nuove modalità espressive nella maturata convinzione che la dialettica delle differenze sola, può contraddistinguere la vita del singolo e dell’universo.
Il bello può diventare fonte di lacerazione interiore come in Oscar Wilde o Huysmann; la malattia, la degenerazione, l’angoscia, la follia, i reietti della società diventano protagonisti assoluti delle opere di Hugo, Zola, Mann, Baudelaire, Kafka, Beckett.
Il bello spesso sta proprio nel deforme, nel rifiutato, nella sofferenza e nella capacità di urlarla, e i linguaggi dell’arte, senza distinzioni, si piegano a rappresentare la confusione tra bellezza e orrore, bontà e malvagità, sozzura e pulizia, disperazione e speranza.
Il recupero del brutto e del rifiutato, il loro dialogo continuo nello svolgersi dialettico delle differenze è un dato di realtà, reso necessario dal superamento della metafisica e dalla morte degli dei e, con questi, di valori certi, o ritenuti tali.
In questa ottica vanno inserite le avanguardie artistiche che rispondono a un’epoca di crisi di giudizio e di crisi di ideali, alla ricerca non più dell’assoluto, ma del “possibile”, che abbraccia ambiti ampi e variegati dell’esistenza.
Il ciclo della materia, della natura e della vita, sono posti sul medesimo piano in una visione universalistica del mondo in cui l’uomo non è padrone assoluto, la conoscenza non è un dato certo, il dubbio e l’angoscia dell’interrogarsi sono un valore. Da questo mutato orizzonte culturale, deriva nell’arte la contaminazione dei linguaggi, l’abolizione di steccati e norme che ne limitino le modalità o gli ambiti espressivi.
Il rifiuto viene considerato come parte del tutto e non come cosa separata dando al tempo una nuova dimensione di circolarità.
Il concetto lineare del tempo viene superato nella coscienza che l’uomo è inserito in un ciclo vitale che comprende molte morti e altrettante rinascite.
Così come rappresentano un continuum, nell’opera di Anna Santinello le centinaia di metri di filo che, in quanto materiale di recupero, è metafora ancora più significativa del tempo della vita e simbolo di un movimento incessante di emozioni contraddittorie che insieme si saldano nell’inconscio individuale e collettivo.