Memorie alchemiche: frammento
per Luigi Mainolfi
di Marisa Zattini
«Loblio è la forbice con
cui tagliamo ciò che non possiamo usare, facendolo con il supremo
orientamento della memoria. Ricordare e dimenticare sono dunque arti identiche,
raggiungere artisticamente questa identità è il punto archimedèo
dal quale si solleva il mondo intero».
(Kierkegaard)
Questo secondo ciclo espositivo vuole ricollegarsi idealmente al tema del
tempo, sviluppato lo scorso anno, ed aprirsi alle suggestioni della memoria
attraverso lalchimia delle opere di cinque artisti quali Luigi Mainolfi,
Gloria Argelés, Giuseppe Maraniello, Antonio Violetta e Alex Pinna,
diversi nel loro linguaggio plastico ma proprio per questa loro diversità
e per la validità delle loro poetiche, proposti in contemporanea
per sondare i confini di ognuno di loro, nelle differenze. Una campionatura,
quindi, che propone momenti diversi, espressioni personalissime, in una
complessità che rende il confronto ricco e fervidamente molteplice
nei suoi risultati e nei suoi aspetti.
Memoria. Ci sono diversi modi di percepire e pensare il
mondo, diversi stili di pensiero, di scelte e di preferenze. Aristotele
sottolineava che la memoria precede cronologicamente la reminiscenza e
appartiene alla stessa parte dellanima alla quale appartiene limmaginazione,
è una collezione o raccolta di immagini con laggiunta di
un riferimento al tempo. Ma mentre la memoria è comune agli uomini
e agli animali, la reminiscenza caratterizza unicamente luomo. Anche
Tommaso dAquino faceva un distinguo fra la memoria, che consiste
nellimprovviso ricordo del passato, e la reminiscenza, che è
quasi un sillogizzare cercando il ricordo del passato. Nella tradizione
platonica la memoria si presenta invece come una forma di conoscenza che
è collegata alla dottrina misteriosofica della reincarnazione.
La memoria nella tradizione gnostico-ermetica è una potenza sacra,
un dono degli dèi che riconduce agli dèi, una via duscita
dal nostro mondo che è solo umano per scoprire dietro di esso altri
livelli inaccessibili. J.P. Vernant ha scritto che «esplorare il
passato significa scoprire ciò che si dissimula nella profondità
dellessere».
Così lartista decifra linvisibile fra i veli della
memoria, riscopre le geografie di un soprannaturale «che accoglie
gli intervalli cadùchi del tempo» (Marsilio Ficino, in Theologia
platonica, libro XIII). Ecco allora che larte della memoria, ritrovando
le immagini di una realtà trascendente, diviene un mezzo per far
corrispondere mente e universo, microcosmo e macrocosmo. Come scrive Paolo
Rossi, le immagini della memoria «sono spiragli che schiudono un
accesso alla trama metafisica della realtà, che mostrano una via
verso le profondità dellessere». Lartista che
attinge consciamente o inconsciamente alla memoria diviene il sacerdote
di emblemi, di sigilli, dellineffabile; diventa linterprete
della realtà delluniverso e del suo stesso destino. Il sapere,
sosteneva Heidegger, può essere definito come memoria dellessere,
ma è la dimenticanza che suscita la memoria, loblio che permette
di volgersi al dimenticato. Il poeta, posseduto dalla memoria, «conosce
tutto ciò che è stato, è e sarà: a lui si
apre quellistante che non è in nessun tempo (
) che
è già nel tempo e però allude a qualcosa che non
è nel tempo». Le opere darte hanno la funzione di richiamare
qualcosa alla memoria, sia essa unemozione o un ricordo reale filtrato
attraverso questo linguaggio cifrato. Suggeriscono, stimolano o sollecitano
variamente: certamente non lasciano indifferenti. Sono testimonianze
destinate a durare nel tempo, a lasciare a loro volta traccia e ricordo
nella memoria. Così lartista vivrà in eterno lasciando
le sue opere quale testimonianza della sua mente, della sua fantasia.
David Hume diceva che la memoria ha a che fare non solo con il passato,
ma anche con lidentità e quindi (indirettamente) con la propria
persistenza nel futuro. Lowenthal precisava che la memoria riconfigura
sempre il passato sulla base delle esigenze del presente. Lassenza
della memoria creerebbe un baratro; la lacuna della smemoratezza farebbe
delluomo un essere senza passato, quindi senza futuro, «bloccato
in un attimo sempre diverso e privo di senso» (Oliver Sacks). Jacopo
Publicio, alla fine del XV secolo, scriveva: «Nulla più dellarte,
diletta lanimo e fa soavemente scivolare in esso qualcosa, nulla
più dellarte vale a stamparlo nella memoria, nulla spinge
più efficacemente la volontà per metterla in movimento ed
energicamente agitarla». È in questo contesto che memoria
e immaginazione, memoria e fantasia si coniugano e si fondono. Hobbes
sottolineava che ricordare si distingue dallimmaginare e dal fantasticare
solo perché il primo presuppone il trascorrere del tempo e anche
Vico identificherà la «fantasia creatrice di immagini con
la memoria dilatata o composta». La fantasia è dunque risalto
di reminiscenze. Le trasfigurazioni della mente si concretizzano
e si esplicano nelle opere degli artisti. La memoria è un labirinto
alchemico, fucina inesauribile, museo di cose rare e curiose, accumulo
di relazioni, di immagini che sedimentano e si sviluppano su se stesse.
La memoria è teatro fertile dove si compiono i primi segni, dove
si attirano composizioni visive intense che il terzo occhio dellartista
trasmuterà in opere visibili. Le immagini sono scrittura
viva. Patrik Hutton, parlando di «nuova arte vichiana della
memoria» scrive che «i nostri pensieri affondano le loro radici
in antiche immagini fantastiche», che «la nostra concezione
del mondo è nata su una precedente visione del mondo, che era dominata
dallimmaginazione e dalla fantasia». La memoria, nellarte,
si rivolge alle profondità del tempo interiore. È una grande
forza che ci fa risalire verso immagini sepolte dal tempo; è riscoperta
di emozioni, di sensazioni dimenticate. La memoria colonizza
il passato e lo organizza sulla base delle concezioni e delle emozioni
del presente. Italo Svevo scriveva: «il passato è sempre
nuovo: come la vita procede, esso si muta perché risalgono a galla
delle parti che parevano sprofondate nelloblio, mentre altre scompaiono
perché oramai poco importanti. Il presente dirige il passato come
un direttore dorchestra i suoi suonatori. E perciò il passato
sembra ora tanto lungo ed ora tanto breve. Risuona o ammutolisce. Nel
presente riverbera solo quella parte chè chiamata per illuminarlo
o per offuscarlo. Poi si ricorderà con intensità piuttosto
il ricorso dolce e il rimpianto che il nuovo avvenimento». Gregorio
Magno sottolineava limportanza di richiamarsi alla forza dellimmagine
perché: «in ipsa etiam ignorantes vident quid sequi debet,
in ipsa legunt qui litteras nesciunt». La memoria attinge al grande
fiume del tempo. Secondo Freud ogni uomo ha in sé uneredità
che «non abbraccia solo disposizioni, ma anche contenuti, tracce
mnestiche di ciò che fu vissuto da generazioni precedenti».
Ed anche per Jung a livello profondo, operano immagini primordiali, sono
presenti nuclei di significati che hanno carattere impersonale e collettivo
e trascendono quindi lesperienza individuale. Lartista è
un grande costruttore di immagini; egli distoglie lo sguardo dal divenire
volgendolo a ciò che darà persistenza allimmutabile.
Questa è la potenza dellarte, come sosteneva Nietzsche, e
le opere sono dei paradigmi delle riemergenze del passato, residui, folgoranti
apparizioni, identità riemerse.
Alchimia. «La pazienza è la scala dei filosofi,
e lumiltà è la porta del loro giardino, perché
a chiunque persevererà senza invidia e senza orgoglio, Dio farà
misericordia» (Nicolas Valois). Lalchimia è larte
e la scienza della trasformazione; si pone come «un arcobaleno gettato
come un ponte sullabisso» (Stanislas Klossowski De Rola),
«è la Saggezza che si trovava presso Dio quando egli ordinava
le diversi parti del mondo» (Canseliet), è una conoscenza
estetica della materia; è una scienza cosmologico-spirituale, si
configura come una tecnica per scoprire la sacralità del cosmo.
Deve svegliare ciò che dorme, deve risvegliare la parte più
segreta della nostra anima: la trasmutazione della materia esterna rispecchia
la trasformazione interiore dellanima. La trasmutazione delloro
è dunque un momento simbolico, un tentativo di trasformare luomo
da vile materia a spirito fine, e produrre così loro
dellilluminazione spirituale. I suoi fondatori e maestri furono
alcuni Angeli che, come si legge nel libro di Enoc, corrotti da donne
terrene, svelarono loro i grandi segreti dellUniverso; ne fu fondatore
Ermete Trismegisto dal quale avrebbe preso il nome di Arte Ermetica. «Tutto
è uno, uno è tutto». Come per lalchimia anche
nellarte ogni opera è costituita da una parte materiale e
da una sottile: ogni lavoro artistico ha unaura unica
e irripetibile. Oggi non si è più abituati a concepire pienamente
un mondo interiore e la possibilità di una conoscenza sovrasensibile
perché siamo spesso condizionati da un razionalismo materialistico.
«Quando si usa lintelletto, cè una separazione.
Non si coglie lessenza, perché lintelletto giunge un
secondo in ritardo (
) lintelletto blocca lascolto»
(R.P. Kaushik). Nella disciplina Zen losservatore è mercurio,
luomo e losservato è femmina, lo zolfo. Quando noi
guardiamo, osserviamo, inconsciamente proiettiamo, quindi non vediamo.
Proiettiamo pensieri e immagini, conscio ed inconscio, valutiamo e confrontiamo.
«Questa fluidità e inconsistenza dellosservatore è
il più grande ostacolo della percezione» (R.P. Kaushik).
Proust diceva infatti che limportante non è cercare nuove
terre ma avere nuovi occhi. Luniverso è un campo di forze
e un flusso costante di energia trasformabile. Jung ritrovò nellalchimia
immagini affini agli archetipi dei sogni. Lalchimia offre dunque
un ricco filone di esperienze visionarie e apre le porte della percezione
a un nuovo ordine di coscienza. Il linguaggio ermetico è essenzialmente
poesia: parla allintelletto del cuore, come larte. Gli artisti
sono dunque alchimisti, forse inconsapevoli oppure ben consci, che sublimano
la materia.
Luigi Mainolfi è un grande affabulatore. Le suggestive
narrazioni poetiche delle sue opere, lapparente semplicità
delle forme esplicitano una prassi della scultura che è frutto
di grande lucidità inventiva e di una forte capacità di
sintesi. Così le forme originarie, in una teoria del
gioco intesa come metamorfosi e cambiamento, attraverso le contaminazioni
evocative filtrate dalla sua forte personalità, in unautentica
capacità di fusione alchemica, si trasmutano in sogni reali.
In unintervista del 1999 Mainolfi affermava: «La mia ricerca
è un modo naturale della mia esistenza. Io non ho mai pensato allarte
come ad ozio, vizio, sfizio (
) a me piace solo stare col mio lavoro.
È come se fosse unaltra parte del mio corpo. Ed è
sempre il materiale che mi suggestiona, la vita dei materiali. Una possibilità
di libertà».
Negli infiniti tentacoli dellimmaginario mainolfiano luomo,
la città, le figure primarie sono indissolubilmente legati. Nella
Città (Sfera) (1994) è evidente lossessione come condizione
della ricerca. «Tutta questa ripetizione mi permette di rilassarmi
nella creatività (
) la ripetizione è anche la chiave
della biologia: se noi guardiamo al microscopio scopriamo che tutto ha
una struttura di carattere ripetitivo e geometrico» (L. Mainolfi).
Una moltitudine di finestrelle vuote caratterizza la visione urbana che
si sviluppa per mezzo della sfera. La superficie della sfera si fa così
epidermide, pellicola, schermo, membrana strutturale per difendere un
dentro che è corpo denso di energia.
La Fortezza Medievale di Castrocaro Terme diviene per Mainolfi giardino
arroccato, luogo ideale dove perdersi fra terra e cielo. La colonna nasce
idealmente dalla statua, come trasformazione, in termini astratti, della
figura umana. Così le Colonne di maggio (2002) - tempio simbolico
di stoffa, simulacro di fantasmagoriche presenze - svettano libere alla
ricerca dellincanto degli echi del vento, diventano apparizioni
aeree nei loro tessuti bianchi drappeggiati come antiche colonne, vestali
silenziose. Questa installazione si pone come una grande poesia spettacolare,
come il dispiegamento lirico, decorativo e teatrale di un canto scultoreo;
è il volto, forse, di una consapevolezza della fragilità
umana ma anche il sospiro per la sua resistenza. Il luogo si modifica,
si trasforma nel ricordo di una qualche percezione inquietante. «La
loro funzione non è stare solo nelle gallerie, ma fuori, con il
tempo atmosferico, lacqua
» (L. Mainolfi). Nelluniverso
mitico di Mainolfi le gigantesche valve di cozze, in un ritmo visivo di
pieni e di vuoti, diventano un immenso sole ferroso da cui scaturisce,
introiettata e proiettata, la favola del nostro vivere quotidiano. Il
grande lavoro Con nacchere a Caracas (1991) è stato posto sulla
cinta muraria perimetrale interna. Nel nome della fantasia, anche i residui
del pasto di un mitico Gigante o di una Gigantessa si collocano in questa
visione organica e immaginifica, elementare e primaria. In una operazione
alchemica Luigi Mainolfi attiva due processi paralleli lavorando sullelemento
naturale - i gusci delle cozze trattati con lelemento ferro - e
contemporaneamente sullelemento psichico - la loro trasformazione,
forse, in un ideale simbolo della luce e del sole. Lo scultore si specchia
nelle metamorfosi della materia mettendo a confronto conscio ed inconscio.
In una sorta di narrativa fiabesca i quattro Narval (1996) bronzei sembrano
riemergere, nella terra, dalle profondità marine o precipitare,
forse, da un fantastico esercito di unicorni per rappresentare, ancora
una volta, le metamorfosi del tempo nelle alchimie delle memorie delle
forme. «Le sue colonne tortili si ergono al bivio di molte letture.
Sono infatti le protuberanze frontali dellunicorno, oppure delle
stalagmiti alimentate da sorgenti a spirale, o alfine gli alberi di una
foresta fantasy, al centro di un qualche paese immaginario» (G.
Celli). Questi Narval sono certamente figure che esigono, in maniera perentoria,
una loro collocazione nello spazio e si pongono in una kermesse di oggetti,
archetipi inquietanti delluniverso mainolfiano, fatti di una materia
- sia essa gesso, legno, tufo, ferro, bronzo - che conserva una specie
di incandescenza psichica.
Lalfabeto plastico di Mainolfi
di Alberto Fiz
«Le forme non sono affatto il loro proprio schema, la loro spoglia
rappresentazione. La loro vita si attua in uno spazio che non è
il riquadro astratto della geometria; prende corpo nella materia, per
mezzo degli strumenti, delle mani degli uomini». Così scriveva
Henri Focillon in quel testo fondamentale che è la Vita delle forme.
Lo storico dellarte francese sottolinea come lopera darte
esista solo in quanto forma e non in quanto intenzionalità.
«Tutto è forma e la vita stessa è forma», afferma
Honoré de Balzac citato da Focillon.
Questa visione della forma intesa come elemento morfologico e rigenerativo,
in grado di prendere una propria posizione autosignificante nello spazio,
appartiene specificatamente alla ricerca di Luigi Mainolfi, un artista
che ha avuto il merito di tracciare un nuovo paesaggio della scultura
liberando la composizione plastica dai suoi tabù e dai suoi complessi.
Sin dal 1977, Mainolfi ha dichiarato la propria responsabilità
morale di scultore considerando prioritario il confronto con la materia.
Non più, dunque, unindagine di carattere autoreferenziale
legata ai canoni della ricerca concettuale, ma il preciso desiderio di
diventare interprete delle forme cogliendo il processo metamorfico che
sta alla base del ciclo naturale. Solo il desiderio di liberare la forma
nello spazio e, nello stesso tempo, di farsi interprete di una materialità
organica, giustificano lavventura di Mainolfi che ci consente di
vivere dallinterno lesperienza della natura.
Sono i materiali stessi che si modificano di fronte allo spettatore innescando
un insospettabile processo vitalistico. Tutto questo si sviluppa attraverso
un viaggio allinterno della materia intesa nella sua dimensione
fisica e simbolica. «Io sono pietra, lo ripeto: una pietra. So che
non potete capirmi; dovrei spiegarvi queste quattro parole una per una
e a gruppi di due e di tre e poi tutte insieme: cosa voglio dire quando
dico io, e quando dico essere, e pietra, e cosa vuol dire essere pietra,
e una, una pietra», scriveva Italo Calvino nel 1981 in un testo
che si potrebbe adattare perfettamente alla ricerca di Mainolfi.
Lo scultore campano va alla ricerca di tracce arcane e primarie che ritrova
negli elementi essenziali, la terra, lacqua, il legno, il ferro.
Nelle sue opere, dunque, la natura rappresenta un flusso libero di energia
che si concretizza allinterno di un linguaggio che non domanda altre
giustificazioni al di fuori di se stesso.
Insomma, come sostiene Annelie Pohlen, «oltre la mano che plasma,
la materia partecipa alleconomia delle immagini e di lì fluisce
oltre lopera, oltre limmagine plastica, nello spazio dellidea
di là della forma misurabile, di là del materiale determinabile».
Uno scultore con cui si potrebbero tracciare insospettabili parallelismi
è Arturo Martini che nel suo polemico pamphlet Scultura lingua
morta sottolineava: «La scultura è un solido come la terra
e si sa che questa trova il suo moto, cioè la vita, nellatmosfera
che le gira attorno, e questo si chiama quarta dimensione». E ancora:
«la scultura non è che un involucro che esclude il soggetto
perché ne è la forma, cioè lo spirito del soggetto.
La forma non è che il caos che si compone volta per volta come
un grembo materno». Ebbene, la quarta dimensione di cui parlava
Martini è lo spazio che diventa il luogo nel quale la scultura
verifica la sua esistenza. Mainolfi scopre questa dimensione e la considera
parte del processo significante come confermano proprio i suoi Scarabocchi
del periodo 1993-1994, forme che si espandono e si modificano, in grado
di trasformarsi in una panchina, in una scala o in mille altre costruzioni
architettoniche a seconda della volontà di chi le osserva. «Sembra
un gioco, uno scarabocchio, un ghirigori da bambino, ma è anche
un tentativo di realizzare una scultura a partire da questa indeterminatezza»,
spiega Mainolfi che utilizza la scultura in tutte le sue possibili varianti
senza mai avere lassillo dello stile o della riconoscibilità.
Anzi se, come scrive Meyer Shapiro, per stile «sintende la
forma costante dellarte di un individuo o di un gruppo», allora
Mainolfi sfugge a qualunque schematizzazione e la sua indagine si colloca
come felice anomalia nel panorama globalizzato delle arti.
Lui ha creato un linguaggio visivo autonomo e individuale che si applica
ad ogni forma di superficie lavorando frontalmente come un pittore (lo
confermano i suoi paesaggi) o sviluppando verticalmente le sue colonne
infinite: «Io vorrei che alle mie colonne spuntassero le corna e
diventassero alberi», spiega Mainolfi. Ma non mancano nemmeno gli
altorilievi o i finti ready made che solo in apparenza si trovano in natura.
Qualunque sia la strada scelta, è la materia della natura ad imporre
le sue regole in base ad un processo immanente e rigenerativo senza fine.
Le sue sculture, infatti, non domandano spiegazioni a chi le guarda: esistono
di per se stesse in unindagine che tende a cogliere lintima
realtà della materia, o meglio il processo di trasformazione sul
piano essenzialmente fisico ed ontologico arrivando ad una perfetta sintesi
tra materia e forma.
La sua arte, insomma, risveglia la materia dal suo sonno e si rigenera
davanti ai nostri occhi in quanto partecipa della componente primordiale.
«Limmagine primaria che rievoca alla memoria la scultura di
Mainolfi è quella della terra: manipolata, raggrumata, o distesa
in piani seccati da fratture, colorata in positivo o in negativo, fatta
passare attraverso il giudizio inappellabile del fuoco e quindi presentata
a noi riguardanti come forma», scrive Angela Tecce.
Questo soffio vitale che passa attraverso lelemento primario, consente
a Mainolfi di liberarsi da ogni regola in un viaggio fatto di leggerezze
e di trasparenze, di levità e di sogno, dove la scultura si separa
dal suo artefice e si estende nello spazio. È questo il segreto
della sua ricerca dove animali di fil di ferro diventano le ombre di un
paesaggio fantastico, così come le Nacchere, i Tamburi, i Campanacci
diventano il segno di una ritualità magica che si concentra sul
suono, inteso come ennesima variazione di quellalfabeto plastico
imposto da Mainolfi. Si potrebbe dire che la sua indagine sulla materia
non ha nulla di materiale ma assume una spiritualità che passa
attraverso lesistenza stessa delle cose. Come si può osservare
in occasione di questa esposizione negli spazi suggestivi e severi della
rocca di Castrocaro Terme, la sua ricerca non ha bisogno di catturare
la vita perché ha già essa stessa la vita in potenza. In
questo viaggio tra le forme che ha inizio con Alatini, una ceramica del
1978, per giungere al Sole del 2002, è possibile ripercorrere la
dimensione arcana delluniverso che celebra la propria esistenza
secondo unindagine trasversale nel tempo e nello spazio.
I suoi segni rappresentano una sintesi alchemica tra la memoria rituale
e sciamanica e la riduzione elementare e ripetitiva dei codici tecnologici.
In qualunque direzione si rivolga lo sguardo, il paesaggio creato da Mainolfi
assume la componente antropologica ancor prima che psicologica proprio
perché nellesteriorità, nella pelle dellopera,
risiede il suo principio costitutivo interno.
«Per esistere», ammoniva Focillon, «bisogna che larte
si distacchi, rinunci al pensiero, entri nella dimensione: bisogna che
la forma misuri e qualifichi lo spazio». In questo senso Mainolfi
ci mette davanti al fatto compiuto costringendoci a riflettere sul suo
universo fantastico e al tempo stesso quotidiano, misterioso ed enigmatico,
dove lessere e la cosa sono parte integrante di una medesima costruzione
architettonica. Così la Città (Sfera) del 1994 sembra specchiarsi
nei ritratti in terracotta che rappresentano LItalia che guarda
il mare. In entrambe le circostanze, laspetto individuale e soggettivo
viene annullato accentuando laspetto massificante e problematico.
Se nel primo caso una moltitudine di finestrelle vuote caratterizza la
visione urbana che si sviluppa per mezzo della sfera, generatrice dello
spazio cosmico, sul fronte dei ritratti la figura diventa la pelle della
città e sui volti compaiono finestre, case e palazzi. I ritratti,
dunque, sono anchessi paesaggi in quanto, come spiega lartista,
«riguardano il concetto di città intesa come corpo e come
interazione». Laspetto caotico e massificante, tuttavia, non
smentisce il fatto che i paesaggi di Mainolfi abbiano unanima: «Sono
delle persone amiche», spiega. Ma non basta: il paesaggio è
soprattutto una forma di scrittura, un geroglifico ricco dinfinite
suggestioni.
A ben vedere, la sua scultura è un grande corpo unitario e organico
dove il gioco, lalienazione, il paradosso, la fantasia, il mito,
il simbolo non sono altro che aspetti diversi di una medesima realtà,
di un medesimo linguaggio, dove larte plastica coincide con lesistenza
del suo autore che costruisce intorno alla materia un percorso che potrebbe
rimandare ad un diario minimo. Un diario minimo dove le forme reali e
quelle dellinconscio sincontrano per dare vita ad un imprevedibile
e misterioso concerto.
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