LUDOVICO CARRACCI Susanna e i vecchi |
CORPO E I SENSI NELLA PITTURA RIFORMATA di Massimo Pulini Siamo abituati a pensare alla controriforma come ad un compatto periodo di buia restaurazione, ma nel campo delle arti visive quella chiamata all’ordine, dopo lo sconquasso protestante, ebbe gli effetti di un’aperta rivoluzione. La radicale critica che il cardinale bolognese Gabriele Paleotti mosse al manierismo, alle sue derive formali e spirituali, pose verità e sincerità quali obiettivi primari nell’auspicato rinnovamento dell’arte. Il cambio di rotta promosso dal Discorso intorno alle Imagini sacre et profane, dapprima al Concilio di Trento e quindi nella sua pubblicazione a stampa (Bologna 1582), avvenne e trovò in Caravaggio e nei Carracci i perfetti campioni, tra loro diversi e complementari, di una verità ottica e di una sincerità sentimentale, che rifondarono i pilastri della pittura. È sul corpo, sulla fisicità delle cose e delle persone che si concentra il nuovo corso estetico del Seicento. La più concreta adesione ad una percezione naturale e lo scandaglio spirituale che l’arte cerca nelle espressioni dei volti e dei gesti, si traduce in una modernissima e variegata visione del mondo. Tra il corpo congelato in un incantamento, sotto la lastra vitrea della pittura rinascimentale, e quello diafano, quasi inconsistente, che vola via dal pennello retorico del Settecento, è nei dipinti riformati del XVII secolo che si trova raccontato per intero l’alfabeto sensoriale e sentimentale umano. Dal riso al pianto, dal dramma allo stupore, dalla ferocia alla lussuria, dalla malinconia al turbamento, le pitture del Seicento danno luogo alla vita. Indagano ogni anfratto emotivo, estraggono simboli dai gesti, allusioni dagli oggetti, metafore dalle allegorie, ma restano piantate nella terra del naturale. Rendono concreta e quasi tattile la carne di ogni creatura, la materia stessa dell’impasto pittorico prende corpo, il pigmento si fa denso e umido, si stratifica come le sette pelli umane e sulla crosta della tela si coagulano tutte le ferite e i balsami dell’esistenza. Nel Seicento perfino la mistica trova nel corpo le sue manifestazioni più plateali. La diffusione dei diari di Santa Teresa d’Avila offre una miniera di ispirazioni alla spiritualità ma anche alle rappresentazioni del deliquio fisico ed è proprio intorno ai limiti estremi delle percezioni umane che nascono i più alti risultati della pittura riformata. I precipizi dell’estasi, dello svenimento, del sogno, del martirio, della penitenza e del suicidio diventano la costellazione privilegiata di una messa in scena del corpo, come se i momenti in cui i sensi sono perduti fossero quelli che meglio raccontano la sensualità umana. Nel vortice di tali argomenti torna utile ricordare che i termini coi quali ora definiamo queste strade di entrata e di uscita emotiva del corpo sono il frutto di una deriva del linguaggio che ha giocato come un prestigiatore coi significati e coi concetti. In quel tempo ciò che noi chiamiamo sensi venivano definiti sentimenti, per contro, gli attuali sentimenti si nominavano affetti, termine che raccoglieva la più ampia gamma espressiva, mentre ora l’affetto ci appare perlopiù come un singolo sentimento. Non a caso si cercava nelle arti - nella musica, nella pittura e nella letteratura - una poetica degli affetti, che sapesse traghettare la commozione verso lidi morali ed etici. Anche la collezione della Banca Popolare dell’Emilia Romagna, pur nel suo carattere di preminenza territoriale, costituisce una sintetica antologia di questo diffuso intendimento. Nella cruda contrizione del San Girolamo dipinto da Annibale Carracci come un nodoso e secco tronco d’ulivo e nella carne terrosa e cupa dello stesso anacoreta di Flaminio Torri si colgono le macerazioni di un corpo che si identifica con la materia stessa del cosmo. Nel danzato salvataggio di Rinaldo che ferma il suicidio di Armida del Tiarini, e nel Tancredi che battezza Clorinda in punto di morte di Michele Desubleo si narrano favole cortigiane in bilico tra epica ed erotica. Nel pianto della Maddalena in penitenza di Lucio Massari e in quello del Giacobbe di Giacomo Cavedoni si distilla la disperazione della cosciente condizione umana. Nel Giaele e Sisara del Besenzi l’eroina compie l’omicidio più agghiacciante offrendo un’espressione devota, quasi pietosa, mentre la Susanna e i vecchi di Ludovico Carracci da scena di voyeurismo è spinta fino ai limiti dello stupro. Nell’ottenebrato dolore del San Sebastiano curato da Irene, opera di Ludovico Lana e nella conturbante estasi della Sant’Agata di Guido Cagnacci che porta sul piatto i propri seni recisi dagli aguzzini, si racconta uno stoicismo che trova mimesi col languore carnale. Ma anche senza toccare queste estreme cuspidi sentimentali e rimanendo entro più mediani e pacati momenti della vita, la pittura riformata cerca nelle linee del corpo le parole per esprimere l’indicibile. Come è per la vivacità gioiosa che soffonde la Madonna col Bambino di Alessandro Mazzola così diversa dallo stesso tema affrontato dal Desubleo in forma più solenne, algebrica e fitta di rimandi simbolici. E si da anche il caso che i corpi divengano più rigidi proprio quando sono ripresi dal vero come nel Ritratto di dama con figlioletto di Cesare Gennari, dove tuttavia anche l’impaccio della posa e i gesti affettati diventano elementi di acuta sincerità visiva. A titolo di coda di questo repertorio sentimentale, nel quale anche la scena di genere assumeva sembianze di grazia, si può porre la Fanciulla con gabbietta vuota recentemente attribuita alla mano del Pasinelli, in cui una giovane contadina agghindata alla meglio per una fiera paesana, con uno sguardo impassibile e con un dito puntato al cielo, ci mostra che l’uccellino che vi era racchiuso dentro ha spiccato il volo. Forse un fidanzamento infranto proprio in un giorno di festa.
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