Vitis vinifera
di Nicola Micieli

Sedici valenti artisti: tredici italiani e tre stranieri pressoché naturalizzati per assiduità di frequentazione, sono stati invitati da Marisa Zattini, sobria curatrice di questa colta celebrazione della vitis vinifera e dei suoi portati culturali, a rivisitare l’Ebbrezza di Noè, un episodio della Genesi di notevole suggestione mitografica e di sedimentato e, a mio avviso, anche inquietante spessore simbolico. Destinati alla Città di San Gimignano, le sei sculture e i dieci dipinti (mi perdoni Luca Piovaccari se assimilo il suo trasporto fotografico alla canonica pittura) scaturiti dalla loro incursione compongono ora un succoso “grappolo” - passi l’ovvia metafora - di variazioni sul tema, nucleo da cui dovrebbero germinare, almeno negli auspici dei committenti, altri futuri contributi, ad impinguare una raccolta già assai godibile, nella sua singolarità, e la trovo appropriata e qualificante in una terra la cui fama discende anche dalla generosità dei suoi selezionati vitigni.
Tema per molti versi intrigante (stavo per dire intralciante), senza dubbio, questo dell’Ebbrezza di Noè. Non a caso conta una stratificata e plurisecolare iconografia, lumeggiata da Gabriele Borghini in questa sede. L’ubriacatura del patriarca costruttore della salvifica navis, antesignano preterintenzionale - dunque non perseguibile, eventualmente - dei moderni argonauti ambientalisti, può dirsi la versione ebraica, castigata e incruenta, di quei misteri dionisiaci, di quegli invasamenti bacchici giunti sino a noi, dal mondo antico, sotto diverse e mediate forme. Ne nomino tre, tra le altre possibili. A cominciare dalla fattispecie simbolica della comunione mistica nella liturgia cristiana, glorificante per la via dolorosa della passione. Quindi la trasgressiva manifestazione d’insania - semel in anno - nelle salutifere feste carnascialesche, in attesa delle ceneri quaresimali. Infine la versione mistificata e regressiva di quelle estenuazioni ritmiche pseudotribali che sono i balli collettivi da sballo dei giovani d’oggi, nei luttuosi fine settimana.
Si tratta di riti e di happening nei quali il vino, o per esso gli omologhi a vario tasso alcolico e grado di nobiltà o i sostituti di accelerazione psichedelica e dagli effetti devastanti, svolge comunque una funzione propedeutica di sovraesposizione sensoriale e di alterazione e ottundimento della coscienza, al fine di dischiudere la o una possibile dimensione altra, altrimenti impenetrabile e insondabile, dell’universo cognitivo.
Ovvio segnalare la correlazione istitutiva tra l’ebbrezza iniziatica necessaria a Noè per accedere all’arcana logica del disegno di Dio, se non vogliamo semplicemente intenderlo, il suo desiderio di annebbiamento, come un provvidenziale stato euforico per sostenerne la terribilità: Lui, unico uomo giusto prescelto a rifondare, tramite il seme della propria discendenza, la stirpe di Adamo, dopo il diluvio, e l’obnubilazione della facoltà razionale, il frastornamento dei sensi che si dice essere condizione privilegiata dell’atto creativo. Una qualche perturbazione degli equilibri psicofisici, indotta da agenti chimici o determinata per autosuggestione, sembra necessaria, insomma, perché si attivi quel terzo occhio mentale - certo finestra visionaria, ed era un tempo iridata specola dell’anima - in cui si dice consista veramente la virtù ereticale dello sguardo radiografico dell’artista. Lui pure chiamato a restituire, del mondo fenomenico che è dominio concreto e fallace delle apparenze, un simulacro ogni volta rigenerato nella sostanza incorporea e mutagena dell’immaginazione.
Quali che siano state nel passato, e in qualche modo si rinnovino al presente, le motivazioni e le finalità palesi e recondite della libagione rituale, si tratta comunque d’un atto sacrificale dell’identità, indispensabile viatico al viaggio, all’attraversamento della soglia, alla dislocazione psichica nell’indeterminato spazio-tempo dell’oltre. Il che comporta una temporanea sospensione dall’hic et nunc esistenziale, complice il vino, nel caso migliore. Davvero dono munifico degli Dei, il vino infonde la letizia, suscita il riso, esalta il potenziale espressivo del corpo, libera la parola dai nessi stereotipati e scherma lo sguardo dall’abbaglio del mondo, inducendo la chiaroveggenza. Il vino medianico consente di evadere il fortilizio dell’Io, eludendo i dispositivi inibitori della psiche, di allentare i vincoli delle convenzioni culturali, di abbandonarsi in docile nudità corporale - così si presenta allo sguardo dei figli l’ebbro Noè, appunto - al flusso avvolgente delle sensazioni, e di secondarne gli impulsi sino alla spossatezza, e al conseguente sonno riparatore, dopo la ridda e la trance o l’estasi, secondo la chiave prescelta che attiva in ogni caso un canale comunicativo con la sfera del sacro.
Il leopardiano naufragio nel mare dell’essere, lo smarrimento nel labirinto dissociato della mente appare conditio sine qua non per ritrovare il filo primigenio della conoscenza intuitiva, data per privilegio ai poeti, sotto la specie, da molti disconosciuta, dell’ispirazione; e, per naturale inclinazione, all’età fanciulla dell’umanità, ed è condizione diversa dalla conoscenza ermetica o esoterica, cui si perviene per gradi piramidali di iniziazione.
Gli artisti qui convenuti hanno dispiegato un ventaglio di risposte alle sollecitazioni del testo biblico molto più variegato di quanto non lasciasse prevedere la loro sostanziale appartenenza all’area della figurazione, per quanto siano stilisticamente distinte le singole modalità d’uso del linguaggio comune. Nell’insieme risultano praticate le piste d’accesso evocativo e, per così dire, di filtro colto e metalinguistico al luogo mitografico, nel quale convergono o rifluiscono suggestioni diffusamente mediterranee e, non di rado, modelli iconografici specificamente riferiti al tema oppure elettivi in quanto abitualmente frequentati dai singoli artisti.
Trovo solo qualche sparso indizio che attesti l’aderenza simpatetica degli artisti al sottosuolo pagano del mito, ossia l’accentuazione espressiva della componente dionisiaca implicita nel tema della vite e del vino. Di questa omissione non mi meraviglio. Considero, difatti, che nell’Ebbrezza di Noè, quale la si legge nel passo della Genesi, il patriarca ha già consumato lo stato euforico, il momento dissociativo, essendo sorpreso nel sonno riparatore e richiamato all’esercizio del suo ruolo istituzionale, di capo di giudice di sacerdote tribale, dai tre figli destinati ad avviare la complicata genealogia delle stirpi umane, e il carico delle competenze e delle prescrizioni loro assegnate.
Predominano in questa navigazione i percorsi in vario modo afferenti, per tangenza o intersezione, al testo narrativo, ponendo come antefatto contestuale, di localizzazione geografica e antropologica, il medaglione in bronzo di Floriano Bodini. Quest’opera del 1984, in effetti, appartiene al complesso di studi dall’artista eseguiti per o comunque intorno al “Monumento a Virgilio” che la città di Brindisi volle erigere nell’occasione del bimillenario del Poeta. A giustificarne l’inserimento nel contesto biblico non sarebbe bastata, ovviamente, la raffigurazione del grappolo d’uva, in posizione centrale tra gli altri frutti della terra e coronato dalle presenze creaturali: la pecora e l’allegorica Mater angelica e vittoriosa, se lo scultore non avesse fissato nel fluire modulare della linea franta, l’arcaico clima agreste e pastorale che è teatro mediterraneo della vicenda di Noè.
Alcune letture sono di rilevabile mediazione iconografica, lungo un arco temporale che va dal Tre al Seicento, peraltro implicando recuperi di stilemi sia pregressi sia succedanei.
Lo dichiara Adriano Bimbi, nella sua rupestre arca esemplata idealmente, con bella vigoria plastica, su Bartolo di Fredi, cui lo scultore rende omaggio, come già fece pochi anni fa con la serie delle “case” ovvero dei luoghi cruciali degli artisti del passato, da Paolo Uccello al Pontormo. Ognuno vede quanto deposito di cultura visiva - etrusca, romana, umanistica, infine primonovecentesca - è metabolizzata nel registro inferiore di questa scultura ove l’arca è propriamente luogo aperto/chiuso di boccascena, sormontata dallo spaccato solidale del monte, che la conclude come una tolda.
Il teatro visionario di Daniele Masini rimanda a un manierismo alla Beccafumi, di climi tenebrosi enfatizzati nella drammatizzazione dei gesti, cui corrisponde un’adeguata strategia espressiva dei contrasti luministici. C’è una tensione, anzi un’irruenza nella conduzione della partitura, nella quale si prefigurano altri eventi notturni e allusi sacrifici, all’insegna o nello stigma “del vino e del sangue”, come recita il titolo del dipinto. Ed è sinonimo di passione. Nel suo mortuario incarnato verdastro, l’ignuda figura di Noè, cui i figli tentano imporre la tunica scarlatta, è pietosamente sorretta e deposta oppure è proditoriamente rapita ad altro destino, nel concitato gruppo che occupa così imperiosamente la scena?
Lo sguardo “ammanierato” di Angelo Fabbri trova nel neoclassicismo la propria scaturigine, nella formulazione concettuale dell’impossibilità della conoscenza la propria destinazione. Il dato narrativo si svolge con esatta consequenzialità formale, avulsa da coinvolgimenti emotivi, snodandosi dal gesto delle mani dischiuse che lo introducono, sulla sinistra, al nudo poderoso e dalle membra affaticate che in posa, di schiena, s’avvita nello spazio astratto, in diagonale con il giovane Noè, di cui si vede la sola testa, avendo lo sguardo vanamente intento a prefigurare nel modello l’immagine di sé, vecchio e finalmente ebbro. Ma il giovane Noè “non ce la fa”, afferma ironicamente il pittore, ad approdare allo svelamento del mistero.
Altre letture isolano e illustrano un momento della narrazione.
È il passaggio cruciale del sonno di Noè spiato dallo sguardo derisorio e scellerato di Cam, nel dipinto di Silvano D’Ambrosio. Sguardo doppiamente accecato: perché infrange il tabù della nudità paterna e perché incapace di scioglierne il senso. Le “vergogne” di Noè non sono state ancora celate sotto il mantello pietoso di Iafet, il solo dei tre figli che mostrerà di saper intenderne il linguaggio cifrato. Noè è dunque immerso nel sonno. Ossia nel sogno, sembra dirci D’Ambrosio, se fa giacere il vegliardo dormiente nella tenda tribale, forse pensando al Sogno di Costantino di Piero della Francesca, e gli pone l’anfora vinaria tra le braccia, facendogliela stringere come fosse una creatura.
Un sonno/sogno è anche quello in cui “naviga” il giovane Noè modellato da Alberto Mingotti con sensibile misura plastica, al fine di rendere la concretezza della presenza corporale e, a un tempo, cogliere l’abbandono sospeso del dormiente al flusso onirico, talché si ha come la percezione d’una deriva in atto nel mare dell’essere, cui sia affidata l’arca dell’uomo.
A mio avviso, non altre deduzioni relative al racconto possono trarsi, senza tradirne la sommessa poesia, in quest’opera consacrata al silenzio, dunque a una intrinseca metafisica che dispone l’anima all’ascolto delle voci sommerse.
Altri artisti operano una sorta di sovrapposizione di fabula e intreccio e sviluppano il tema della confluenza sincretica di spiritualità e culture diverse nelle manifestazioni del sacro.
Nel suo prosciugato lessico pitto-scultoreo, condotto con spirito evocatore di concrezioni e graffiti rupestri, quasi palinsesto in cui i segni delle culture magiche e totemiche, da cui proviene la materia mitografica originaria, germinano e si mescolano e perennemente divengono all’incrocio con altre civiltà e temperie spirituali, Medhat Shafik punta sulla distribuzione a registri sovrapposti degli elementi narrativi, tutti compresenti nell’unità visiva e temporale dell’immagine, in una sorta di mappa parietale in cui si inscrive il percorso dell’uomo sugli itinerari del sacro.
Joachim Schmettau articola spazialmente tempi e snodi del racconto con incalzante ritmo ondulare, giocando sulla stringente scansione della partitura ove si alternano e si integrano, quali rilievi in positivo e concavità in negativo, le esatte forme comunque sapientemente modulate nell’esiguo spessore della formella. L’ebbrezza è qui un’energia totalizzante, che investe e anima la natura, gli uomini, le cose, scompaginandone l’ordine codificato, sovvertendone le gerarchie, rimettendone in circolo princìpi e valo ri stereotipati a cui si abbarbicano le comunità chiuse al mutamento. Intenzione di racconto c’è altresì nel rilievo vigorosamente modellato da Richard Hess. La scena ha il gusto della sacra rappresentazione, apparecchiata in uno spazio scorciato la cui profondità fittizia è data dallo scarto di rilievo tra il primo e il secondo piano, delimitati dall’apertura ad arco cui sovrintende una maschera di Pan. Paganesimo e monoteismo, mondo classico e mondo giudaico-cristiano si incontrano e si dichiarano nelle figure canoniche delle rispettive tradizioni rappresentative, che sono: da una parte la maschera faunesca e l’opulenta raccoglitrice dell’uva, questa leggibile, peraltro, anche come allegoria evangelica; dall’altra il gruppo del Noè dormiente tenuto dal figlio, palesemente ispirato all’iconografia cristiana della pietà.
Una sorta di sincretismo postula anche Massimo Pulini. Nella sua proteiforme e davvero panica personificazione dei processi vitali sottesi alle manifestazioni della natura, egli compie una compenetrazione osmotica tra l’iconografia classica del Bacco maturo e l’effigie ideale d’un Noè ancora intriso di spiriti che vorrei dire orfici, quali si evincono dal sontuoso e vivido paramento smaltato dei colori, stesi a profusione e in timbri risonanti sull’impronta radiografica della figura, sicché paiono rifluire dalle latebre oscure della materia alla luce che per la prima volta li folgora e li rivela.
Bruno Ceccobelli è forse l’artista italiano più assiduamente impegnato sul terreno del sincretismo, accolto con una peculiare disposizione a permutare ogni intuizione estetica in esperienza interiore e misteriosofica. L’opera sua è una fioritura di iconogrammi e simboli ermetici, non dandosi figura né segno che non rimandi a una dimensione altra. Il dipinto che egli ha destinato a questa raccolta è propriamente una tavola sapienziale, impostata sul simbolismo del numero tre, che spazialmente si concreta nelle figure geometriche di due triangoli, rovesciati uno rispetto all’altro e sovrapposti al terzo dai vertici, l’uno composto dalle lettere del nome Noè, l’altro dalla correlazione visiva tra la figura sommaria del patriarca e la coppa della libagione mitica e mistica.
Valenza simbolica possiedono le rimanenti stazioni di questo piccolo itinerario nella mitografia dell’ebbrezza iniziatica, ciascuna contrassegnata da inequivocabile cifra stilistica.
Nella sorprendente tavola di Paola Gandolfi assume connotazione sessuale, di simbolico parricidio per il riconoscimento dell’identità maschile, la visione corporale della nudità di Noè, cui guarda la testa di Cam, decollata e sospesa nello spazio con le altre, distratte, dei fratelli, come acini staccatisi dal grappolo. L’artista pone una cura particolare alla definizione morfologica della figura, sottoposta a una sorta di chirurgia fantastica, che qui ne pregiudica l’integrità, altrove ne diversifica e complica la struttura e le articolazioni o ne stravolge la conformazione innestando o aggregando parti anatomiche, talché ne scaturiscono “mostri” bizzarri assimilabili ai grilli dei codici medioevali.
Dino Benucci travalica l’episodio biblico dell’Ebbrezza di Noè per celebrare la discesa mistica dello Spirito nel calice del vino, ostentato in primo piano sull’altare. Si è consumata non solo la temporanea insania del patriarca, ma la passione del Cristo, che si rinnova e si sublima ogni volta nella consacrazione del pane e del vino sulla mensa eucaristica. La figura ancillare che avanza a passo di danza, appartiene al repertorio iconografico del simbolismo, fatti d’aria i veli azzurrati che la avvolgono riverberando sul candido lino, mente il fitto fraseggio dei rossi dei gialli dei violetti divisi in segni saettanti, fa da corona fulgida alla eterea apparizione.
Del mito biblico Lily Salvo disattende sia la lettera, nel senso che non ne rispetta i contenuti narrativi, sia la logica patriarcale sottesa alla dinamica conflittuale innescata dall’Ebbrezza di Noè. Muta il segno di genere, dal maschile al femminile, in questa sensualissima visione intitolata allo sguardo, nella quale paiono fondersi il mito di Orfeo, la cui testa mozzata dalle Baccanti venne conservata nel tempio di Bacco, e quello di Danae e della pioggia d’oro, ma nel dipinto della Salvo lo sperma di Zeus è uno stillare sanguigno di ambrosia, un colare di colore dalla deità femminile, che di sé spreme dall’alto il succo fecondo, alla ignuda ninfa invasata che se ne imbeve.
Infine, due presenze che vorrei dire divergenti: l’una rispetto all’altra, per tipologia del mezzo espressivo e per linguaggio, ed entrambe rispetto al contesto sin qui attraversato, essendo peraltro accomunate, se vogliamo, dalla medesima inclinazione a desumere dall’Ebbrezza di Noè un messaggio proiettivo di letizia. Messaggio fisiologico al gran giocoliere Ugo Nespolo, e intendo dirlo congenere alla valenza ludica del suo fraseggio pittorico; dettato da un’intenzione euforica in Luca Piovaccari, del quale conoscevo immagini di più assorto straniamento e insinuanti una sottile inquietudine, sempre ottenute per trasporto fotografico su acetato trasparente. È inoltre palese il loro sostanziale disimpegno dal vincolo tematico.
Non si può dire, difatti, che Nespolo abbia pensato di calarsi in qualche modo nel tema, per quanto abbia messo in campo – è il caso di dirlo – un suo bestiario araldico che avrebbe potuto benissimo figurare nell’arca, però sventolando come insegna su un pennone, non già occuparne le stive già ingombre dello zoo salvato dalle acque. Un sentore di festa, di gran pavese circola, in effetti, nei profilati animali entro il cui marcato contorno Nespolo libera la scherma del segno carico di colore. Sono squilli di trombe, rulli di tamburi. Sono annunci della fioritura da Noè vagheggiata, durante il diluvio, nei suoi sogni galleggianti sull’arca salvifica.
L’immagine assai cattivante di Piovaccari riconduce all’attualità più flagrante e cordiale, consegnata al sorriso naturalmente espansivo di due adolescenti, la nozione più elementare e sincera, la più destrutturata e appagante dell’ebbrezza, che nell’episodio biblico si carica di così numerose e intricate connotazioni. Piovaccari semplicemente registra, più che celebrarla, la gioia di vivere, che traspare nella presenza delle creature, nella loro promessa di futuro, sul paramento dei pampini che fanno da fondale al loro manifestarsi creaturale.